In questo, forse, non saremmo stati originali, ma se è vero che la trasparenza e la sincerità sono premianti qualità, ben venga! Con questo diamo il benvenuto al carissimo Professor Alberto Mattiacci. Ci ha incuriosito per la sua capacità innata e naturale di saper comunicare. Oltre che seguire le Sue pubblicazioni, ricordiamo che è stato nostro ospite in alcune iniziative, davvero ben riuscite.
A questo riguardo, quando si “debutta”, a cosa dobbiamo fare particolare attenzione?
Innanzitutto mi lasci dire che il piacere è mio: per chi fa il mestiere di studioso poter contribuire con le proprie idee al progresso del Paese è il completamento del cerchio, per così dire e quindi grazie a voi. Entriamo nel merito: ogni atto di comunicazione, secondo me, è una prova sempre nuova. A ogni nuovo incontro (il “debutto” che dice lei), tutto quello che si è fatto di buono prima non vale più, al massimo, può servire a plasmare l’aspettativa e a generare un pregiudizio positivo, ma nulla di più. In ogni occasione – questa inclusa – la sfida è catturare l’attenzione dell’audience e mantenerla viva per il tempo necessario a far passare i messaggi.
L’esperienza rimane la madre di ogni conoscenza?
No e sì, a mio avviso. NO, se si intende solo la propria esperienza personale, sia essa diretta – es. “sono 30 anni che sto sul mercato, per cui so come funziona” – o indiretta – es. “mio cugino che vive in Canada mi ha detto che lì …” Per quanto significativa sia l’esperienza diretta è comunque limitata nello spazio e nel tempo. SI’ invece, se per esperienza intendiamo quella sopra, ma sistematicamente integrata dall’ascolto continuo delle esperienze altrui, che prendono forma nella lettura e nell’ascolto di (cito in ordine sparso): rapporti di ricerca, webinar, seminari, saggi, documentari, eccetera. Insomma la conoscenza + come Arlecchino: serve due padroni – l’esperienza personale e l’esposizione a quella altrui – ed è fatta di molti colori diversi.
Il Marketing? Chi era costui? Una volta potevamo rispondere così oggi, ovviamente, non più?
Lei sa che è un termine che uso malvolentieri. Il suo significato è positivo e fondamentale, l’idea che se ne ha è sbagliata, parziale e fondamentalmente negativa. Io uso l’espressione “fare mercato”, in sostituzione di Marketing, a dire che ogni azienda fa due mestieri contemporaneamente: realizzare prodotti; realizzare le condizioni di mercato per questi prodotti. Il marketing attraversa entrambe le attività e le lega nel fatturato e nei margini.
Ma abbiamo davvero contezza di quanto possa essere dirimente il saper comunicare? Ci aggiungiamo anche la capacità di comprendere e di ingaggiare, le fondamenta per una puntuale e redditizia partecipazione?
Se noi pensiamo alla comunicazione come all’insieme degli strumenti che vengono usati, secondo me guardiamo il dito invece della luna che indica. La comunicazione, invece, è ciò che costruisce e distribuisce le informazioni in base alle quali ciascuno si fa un’idea sulla realtà. Tutto qui. Se questo si capisce davvero, allora la logica e necessaria conseguenza è assegnarle un ruolo strategico – che in azienda significa metterci su un bel po’ di budget per molti anni. Se si fa finta di capirlo, si continua a fare ciò che molti fanno: assegnare la responsabilità alla figlia laureata. Scusi la verve polemica, ma nel XXI assistere ancora a cose del genere non fa più nemmeno ridere.
Altri aggettivi che ci piacciono molto: credibilità e costanza. Come un buon vino, invecchiando accrescono il valore e ci distinguono?
La credibilità è fra i valori divenuti dominanti con la digitalizzazione della vita quotidiana e va a braccetto con la trasparenza. Pariamo da un punto: il “non comunicare” non esiste. Faccio un esempio: se io non rispondessi per settimane alle sue mail e telefonate lei leggerebbe questo comportamento come un’informazione (la mia maleducazione e il mio disinteresse per la sua organizzazione). Quindi, se io comunico che sono certe cose e faccio certe cose, poi devo renderlo verificabile, altrimenti non è credibile. Se non lo faccio, è come se stessi ammettendo di mentire. La costanza, ovvero la continuità temporale, è la dannazione del nostro tempo: ogni cosa, per avere successo e senso, deve essere condotta costantemente nel tempo.
La digitalizzazione è davvero concludente per avere successo? O meglio ancora per traslare le peculiarità di chi siamo e di cosa produciamo?
La digitalizzazione non esiste in sé, esiste in tutte le cose che siamo e facciamo. Se questo non ci entra in testa, continuiamo a pensare che la digitalizzazione sia gli strumenti – lo smartphone, l’AI generativa ad esempio – e non ciò a cui questi strumenti servono. Liberi di farlo ma allora perché ostinarsi ad andare in auto invece che sul cocchio a cavallo? Perché accendere la luce, invece che una candela? Perché prenderei i farmaci invece che applicare sanguisughe alla giugulare? Scusi la maniera diretta, ma se un sevizio possiamo fare ai nostri imprenditori, oggi, è quello di portarli nel futuro e non nel tanto rassicurante passato.
La nostra confort-zone è andata in mille pezzi grazie al Covid ed alle guerre. Brusco risveglio. Cos’è cambiato?
Tutto e nulla. Da sempre la storia procede per grandi momenti. Semplificando, al limite del grossolano, ci sono epoche in cui la storia è trainata principalmente dall’economia – come è stato dai primissimi anni ‘90 a fine decennio scorso – altri in cui è la politica a farlo. Da 15 anni circa abbiamo iniziato ad incamminarci in questa fase, l’unica cosa che è cambiata è che ci sono volute due guerre per farcene accorgere. Su questo grande tema, mi permetto fare dono, a lei e ai suoi associati più curiosi, di un mio libretto, invitandovi a leggerne le 20 pagine finali, dalla 139 in poi. Lo scarica liberamente qui: https://www.albertomattiacci.it/libri/.
Il “bel paese” è davvero cosa complicata da capire. Ed anche questa non è certamente una novità. Infinite peculiarità, zone d’ombra e brillantissimi successi. Dove non arriva il collettivo sopraggiunge il singolo. Con una bassa produttività ed investimenti poco premianti sull’incentivazione, che via d’uscita potremmo individuare?
Il nostro paese è quello del “nonostante”. Nonostante: una classe politica di cui tutti si lamentano, un debito pubblico mostruoso, una PA inefficiente, imprese di dimensione troppo piccola, bassi investimenti in tecnologia e conoscenze, eccetera eccetera eccetera, nonostante tutte queste cose, “la nave va” come diceva Federico Fellini. Secondo me l’Italia è forte quando è capace di credere in un “noi” e non solo nel proprio minuscolo “io”. Non a caso la famiglia è la nostra forza. Abbiamo bisogno di ricredere nei “noi”: associazionismo, sindacati, reti d’impresa, partiti politici, chiese, e via dicendo.
L’Europa. Alla bisogna ne invochiamo l’importanza o la denigriamo. Meriti e colpe, come ben sappiamo, stanno sempre a metà. Oppure chi è causa del suo mal pianga sé stesso?
L’Europa è fatta dagli uomini non è Dio: può sbagliare e sbaglia, talvolta. Invito tutti a guardare una mappa, quella del mondo Upsidedown (si trova in rete) e trovare l’Italia. La risposta è lì.
Qual è il piacere di scrivere un libro?
Quando si chiude e si dà il via libera a stamparlo, enorme: è l’atto che dà senso ad anni di studio e riflessioni. Fino a un attimo prima, tutto è una gran fatica e un enorme senso di inadeguatezza, la percezione che il mondo ti scivoli fra le rughe delle dita e che di là ci sia l’umanità intera a schifare ciò che hai pensato e scritto. Nell’attimo dopo averlo preso in mano, una volta stampato, riemerge la paura di essere stati pretenziosi e imprudenti ad averlo scritto e viene voglia di scappare. Anche perché uno o due errori li trovi sempre. Però è bello sapere che qualcuno ti dà fiducia e passa del tempo a leggerti. Non ha prezzo.
Ai suoi studenti raccomanda sempre che …
Ne dico tante. Forse troppe. Cerco di far passare due idee: che se nella vita non si è curiosi e predisposti all’impegno e al sacrificio, è meglio trovarsi qualcuno ricco/a da sposare (a patto, però, di accettare un’esistenza subalterna e insignificante). La seconda è che non sono più bimbi e che devono trovarsi la strada. Poi, gli auguri di fare dei figli e anche abbastanza presto. Qui però devo dire che predico bene dopo aver razzolato male.
Domani mi devo ricordare di…
Sorridere perché il futuro sarà bello.
Che peccato finire qui. Ci prendiamo la libertà di salutarla e di darci appuntamento davvero a brevissimo.
È stato, come sempre, un piacere.
Grazie davvero a lei e ai suoi associati. A presto, auguri!
Il Direttore,
Gianluca Cavicchioli