Sostenibilità, ricerca e competitività: le sfide del settore primario secondo l’imprenditrice agricola e presidente della FNP Proteoleaginose di Confagricoltura
L’agricoltura italiana si trova a un bivio cruciale, tra sfide globali e opportunità di crescita. Il settore primario non è solo produzione di cibo, ma anche innovazione, sostenibilità e strategia economica. Ne parliamo con Deborah Piovan, imprenditrice agricola e presidente della FNP Proteoleaginose di Confagricoltura, che con la sua esperienza offre una visione chiara sul futuro dell’agricoltura e sul ruolo chiave dell’impresa in questo contesto.
Impresa, sviluppo e redditualità. Un trigono imprescindibile per una agricoltura performante e produttiva?
Quando mi capita di parlare agli studenti spiego che l’impresa è come una scatola: da una parte entrano i fattori della produzione, dall’altra esce il prodotto; quello che sta in mezzo è affascinante. L’imprenditore ha il compito di gestire in modo ottimale i fattori della produzione, fra i quali ci sono terra, energia, lavoro, sementi, acqua, eccetera. Mentre si occupa di questo deve anche tenere d’occhio le richieste del mercato per fornire un prodotto di adeguata qualità per il quale ci sia richiesta. Il tutto lavorando all’interno del quadro normativo europeo, che è il più severo al mondo per tutela dell’ambiente, dei lavoratori, dei consumatori. Non è una sfida da poco, ma se l’impresa non fa reddito non investe, non cresce sul territorio, non è in grado di innovare, di formare le proprie risorse umane, di migliorare costantemente i prodotti che offre ai consumatori, di collaborare con il mondo della ricerca.
La centralità dell’impresa, troppe volte messa in discussione dal sistema, in favore di altre sensibilità, in primis la transizione ecologica. Ma gli agricoltori sono i primi sostenitori della sostenibilità. Facciamo chiarezza?
Se le imprese sono in sofferenza economica non sopravvivono: come ci può allora essere sostenibilità? I tre pilastri su cui si regge la sostenibilità sono quello ambientale, quello economico e quello sociale: se ne manca anche uno solo la sostenibilità non sta in piedi. Ecco perché se ha davvero a cuore l’ambiente il vero ambientalismo cerca soluzioni pragmaticamente, non si attacca a slogan e ideologia, accoglie le innovazioni, rivede le proprie posizioni davanti alle evidenze: perché questo è ciò che serve all’ambiente. Non significa non volere la transizione ecologica, ma perseguirla con ogni strumento che l’innovazione ci mette a disposizione con approccio volto alla risoluzione dei problemi e non a difendere posizioni preconcette.
Il sistema ancora non ha preso contezza dell’importanza delle produzioni agricole? I dati sono preoccupanti. Dipendiamo dall’esterno anche per produzioni tipicamente mediterranee.
La mia sensazione è che i Paesi europei per molti anni abbiano deliberatamente rinunciato a stimolare la produzione agricola: conveniva di più importare, abbiamo un potere di spesa maggiore rispetto a molti dei Paesi da cui importiamo. Inoltre questo atteggiamento permetteva di accontentare le richieste di potenti lobby ambientaliste: meglio pensare all’Europa come un giardino bello ma improduttivo, meglio finanziare l’agricoltura biologica perché possa stare sul mercato anche se ha grossi problemi di produttività, oltre che di sostenibilità ambientale, pazienza se l’agroalimentare dipende sempre di più da materie prime importate. I dati sono chiari: importiamo derrate e le trasformiamo in cibo, magari anche per poi esportarlo. Ma le tensioni geopolitiche degli ultimi anni sono state un’amara sveglia. Senza considerare poi che esistono diversi studi che dimostrano come le importazioni europee di derrate agricole stimolano la deforestazione nei Paesi da cui importiamo. Quindi fiaccare la produttività degli agricoltori europei è un doppio errore, sia in termini di approvvigionamento sia in termini di impatto ambientale.
Abbiamo bisogno di interventi strutturali. Di autostrade da percorre senza ostacoli pretestuosi e penalizzanti. Ricerca ed innovazione?
Come cittadini dovremmo pretendere maggiori finanziamenti alla ricerca. Sono i soldi meglio spesi, sono quelli che portano a risparmi futuri, a soluzioni per l’ambiente e per l’economia. È compito di tutti noi collaborare a creare un clima fertile per ricerca ed innovazione. La pesantezza della burocrazia affligge il settore della ricerca proprio come ogni altro settore, è un mostro che si autoalimenta e che divora risorse, tempo ed energie mentali. Il politico che risolverà questo problema avrà compiuto il passo più importante per lo sviluppo sostenibile, a pari merito con la comunicazione e il coinvolgimento della società nei processi dell’innovazione.
Coraggio e visione. Meglio decidere velocemente e sbagliare che tergiversare in attesa d’intercettare il vento del consenso?
C’è una giusta via di mezzo. In diversi Paesi vi sono consulenti scientifici di provata reputazione che lavorano a servizio dei decisori politici; penso che la politica italiana dovrebbe dotarsene. In questo modo le decisioni politiche possono essere prese su dati scientifici. È un processo che va fatto coinvolgendo e informando anche l’opinione pubblica: solo condividendo sfide e possibili soluzioni si può sperare di ottenere accettazione dell’innovazione, e quindi una quota di consenso.
Il vero cambiamento sta nella mentalità, aperta e dinamica. Altrimenti e come avere una bella cassetta degli attrezzi senza utilizzarli.
È proprio così: la cassetta degli attrezzi è ricca di strumenti innovativi, dovremmo lasciare i ricercatori liberi di utilizzarli tutti per rispondere alle molte complesse sfide dell’intensificazione sostenibile. Filosofi e bioeticisti, psicologi e scienziati si arrovellano sul perché vi sia talvolta un rifiuto delle innovazioni. Non è una caratteristica intrinseca del nostro tempo: quando fu introdotta la pastorizzazione industriale del latte la gente scese in strada per protestare e ci furono violenti disordini; eppure quella innovazione tecnologica salvo le vite di milioni di bambini. Che fare? Educare alla curiosità e al pensiero critico, imparare ad essere gratificati dalla capacitò di cambiare idea davanti a nuove evidenze, non impigrirsi davanti a slogan “di pronta beva”. Perché la realtà è complessa, raramente è bianco o nero e la scala di grigi ci deve emozionare, non affaticare.
La reputazione degli agricoltori. Sempre li ritorniamo. Il demerito è anche un po’ nostro. Facciamo tante cose bellissime ma non riusciamo a dare la giusta visibilità?
Forse noi agricoltori dovremmo dedicarci un po’ di più alla comunicazione, visto che le persone si illudono di imparare cosa sia l’agricoltura guardando trasmissioni che con il nostro mestiere c’entrano poco. Spesso l’obiettivo di tali prodotti tv non è informare, ma spaventare; la paura vende. Il “marketing della paura” è usato da un certo giornalismo poco responsabile, ma anche da chi cerca di promuovere i propri servizi e i propri prodotti. Penso a certe catene di supermercati che puntano a demonizzare l’agricoltura per far passare il messaggio che loro invece difendono i propri clienti consumatori. È un approccio pubblicitario poco serio: con chi produce cibo si dovrebbe collaborare, fare filiera; invece poi sono i primi a strangolare gli agricoltori.
Le filiere. La distribuzione giusta del merito e del valore delle produzioni ai primi attori. Altra centrale battaglia. Qui è davvero complicato e difficile. Proviamo ad indicare una strada?
Credo ci siano fondamentalmente due strategie e servono entrambe. Da un lato i produttori devono imparare a lavorare insieme, a fare integrazione orizzontale alleandosi in strutture agili, coese ed efficaci. C’è la cooperazione, ma anche le Organizzazioni di Produttori oppure le Reti d’Impresa: ogni realtà trovi la soluzione più adatta alle proprie esigenze, ma si deve concentrare l’offerta. Non serve solo ad avere maggiore potere contrattuale, ma anche ad offrire un servizio migliore all’acquirente che sta al livello successivo della filiera, garantendo quantità maggiori e a qualità omogenea. Dall’altro lato le filiere devono spingere la collaborazione fra i diversi livelli: si deve programmare la produzione e la sua qualità, si deve garantire un’equa distribuzione dei margini. In questo modo crescono tutti e la filiera è più forte e più resiliente anche davanti alle sfide economiche, ambientali, geopolitiche di questi tempi incerti.
Perché fa l’imprenditore agricolo? Passione e cosa?
Veramente faccio l’imprenditrice agricola! Battute a parte, ho scelto questo lavoro per passione e per tradizione familiare. È un mestiere che mi permette di conciliare il mio interesse per le scienze con le sfide dell’imprenditoria. È un lavoro molto vario, ogni stagione è diversa dall’altra. Bisogna conoscere l’agronomia e i mercati, gli strumenti finanziari e la genetica, la chimica e la contabilità; difficile annoiarsi!
Magari potessi…
… avere facoltà di scelta! Essere libera di coltivare piante OGM, mais per esempio visto che i nostri clienti da tanti anni lo comprano dall’estero. Non ci sono più dubbi che si tratti di una tecnologia utilissima soprattutto per la protezione delle colture dagli insetti nocivi; così potremmo ridurre l’uso di insetticidi. Ma continuo a sperarci. Dovremmo chiedere alla politica di autorizzare prove in campo, così si potrebbero sperimentare i vantaggi ambientali, sanitari ed economici di piante migliorate. Dovremmo farlo a prescindere dalla tecnica utilizzata: in fondo, non giudichiamo la bontà di un libro dallo strumento con cui è stato scritto, computer o penna biro, ma dalla sua qualità intrinseca. Perché dunque con le innovazioni biotecnologiche ci perdiamo in sofismi?
Una cosa cui non può rinunciare?
I libri, senza dubbio. Conoscere è uno dei piaceri e degli scopi della vita.
Davvero grati per il suo prezioso contributo. Non mancherà occasione di invitarLa nuovamente ad una delle nostre iniziative.
Il Direttore,
Gianluca Cavicchioli