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Curiosità e comunicazione: a colloquio con il Professor Luca Toschi

Nov 13, 2023 | Apertis Verbis, Novità

Cosa è la curiosità? Opterei per questo aforisma: “Ogni genio è un gran fanciullo, già per il suo guardare al mondo come a uno che di estraneo. Chi nella vita non resta per qualche verso un fanciullo e diventa invece un uomo serio, sobrio, posato e ragionevole, sarà certo un bravo e utile cittadino di questo mondo, ma un genio non sarà mai.”

Appunto curiosando, nell’ormai lontano 2020, abbiamo avuto la fortuna di incontrare il Professor Luca Toschi a cui diamo il benvenuto nelle nostre stanze. Era forse destino?

Non servono presentazioni: esperienze e progetti parlano da soli; vogliamo però far tesoro di questa vicinanza per cercare di amplificare quello che facciamo come Unione e soprattutto cogliere insegnamenti e spunti per diventare ancora più “curiosi” spinti da quella irrefrenabile voglia di sapere quel “qualcosina” in più. Una sete che mai finisce, anzi si alimenta quotidianamente.

Questa premessa ci giova per parlare di curiosità e comunicazione, un solido connubio, un sistema circolare? L’una ricorre l’altra?

“Curioso”, “curiosare”, “curiosità”. Si tratta di termini il cui significato oscilla fra virtù e difetto. “Curiosa” può essere una persona che indaga, studia, cerca, che non si accontenta di ri-conoscere nel mondo che la circonda quanto già si sa. Al contrario vuole conoscere, capire, farsi un’idea al di là di schemi conoscitivi e di modalità comportamentali consolidate, ricevute dal passato che ritiene insoddisfacenti rispetto ai bisogni del presente. Viceversa “curiosa” può indicare una persona che vuol sapere e conoscere spinta da un desiderio di farsi gli affari altrui, di intromettersi in questioni che non la riguardano al solo fine di spettegolare, sparlare, chiacchierare in maniera futile e maliziosa, con lo scopo di accreditarsi come persona informata e come tale in grado di dare informazioni che pochi altri, se non lei sola, è in grado di dare. Due scenari opposti che hanno in comune la voglia di conoscere, di sapere ma con scopi contrari: da una parte “seguir virtute e canoscenza” dall’altra “viver come bruti” riprendendo le parole di un uomo la cui “curiosità” concorse a riscrivere radicalmente la cultura dell’intero Mediterraneo, e non solo: cioè Ulisse. La cui storia, rivisitata e reinterpretata epoca dopo epoca, è stata e continua ad essere alla base della cultura moderna. Ulisse il comunicatore per eccellenza, colui che comunicando agisce sulla realtà, tanto da riuscire a chiudere, con la trovata del Cavallo di Troia, una guerra che nessun generale, nessun esercito riusciva a portare a termine. E sarà proprio puntando sulla cattiva curiosità dei Troiani che riuscirà nella sua impresa. Ancora oggi la cultura classica ci insegna la centralità della curiosità, della ragione, della comunicazione, il corretto rapporto fra teoria e pratica, fra immaginare e realizzare, fra impresa e realtà. Sì proprio quella ‘cultura’ che molti ritengono oggi inutile, lontana dai bisogni concreti della gente, specie delle famiglie più bisognose, i cui figli prima vanno a lavorare meglio è. Per chi poi sia meglio non è chiaro. O forse lo è. Ulisse è il prototipo di una comunicazione di cui oggi abbiamo un grandissimo bisogno: una comunicazione che sia in funzione della ricerca, di una formazione continua, dell’innovazione non fine a se stessa ma orientata all’incessante miglioramento della nostra umanità. Ulisse la cui leadership si basava sulla sua autorevolezza universalmente riconosciutagli dai suoi compagni d’avventura, sulle sue conoscenze e saperi, sulle sue competenze, sulle sue abilità. Sull’esempio che dava. Non c’è “canoscenza” senza “virtù”, appunto. La “curiosità” allora come apprendimento che dura tutta la vita, la vera impresa è questa. Un’impresa che non può essere senza rischio, perché quando si conosce davvero la conoscenza non è un capitale che va ad accrescere un capitale preesistente, come un conto in banca che aumenta giorno dopo giorno. La conoscenza quando è tale incide sull’intero sistema dei nostri saperi, facendoci non solo vedere ciò che prima non riuscivamo a vedere, ma anche guardare il già noto con occhi diversi. Non è un atto di avarizia, avrebbe detto Lorenzo Milani, ma un atto che riguarda l’intera comunità, la Polis nella sua universalità, per restare in una prospettiva classica. Il come dipende poi dalla meravigliosa diversità delle persone, delle organizzazioni, dei contesti, dei tempi, dei luoghi, delle attività: dall’imprenditrice\imprenditore alla volontaria\volontario del terzo settore non c’è pensiero o azione che non riconduca alla Polis. Tutto e tutti partecipano – lo vogliano o non – alla quotidiana costruzione della comunità cui appartengono. Qualunque sia il tipo di attività che svolgono. In questo senso tutto è comunicazione, e la comunicazione è tutto.

Può stupire che un ricercatore come lei, la cui carriera, iniziata nelle università statunitensi, è segnata da sempre dallo studio e dalla sperimentazione delle nuove tecnologie digitali, sia così attento alla cultura classica?

Nei miei corsi, accanto allo studio delle forme più avanzate di community building (e tralascio le parole inflazionate “sostenibile” e “resiliente” che significano, ormai, poco o niente), di profilatura per un data base indispensabile per creare e gestire reti di relazioni, di costruzione di tavoli nuovi di Progetto fra stakeholder non abituati a considerare le collaborazioni fra di loro possibili o convenienti, oppure nel lavoro di analisi dei bisogni del mondo dell’usus, dell’utenza, delle persone comuni, dei pubblici più diversi, che chiedo ai miei studenti, alle mie studentesse, c’è sempre la richiesta di conoscere la storia da cui veniamo. E le assicuro che i giovani si appassionano a vedere come, dietro l’innovazione tecnologica più avanzata che sperimentiamo e realizziamo, ci siano questioni aperte da secoli se non da millenni, come è il caso della cultura greca, o latina. L’anno scorso mentre progettavamo architetture nuove per la comunicazione online, si studiava come la tecnica del public speaking trovasse nel De Oratore di Cicerone, un manuale per gli interventi forensi, un punto di riferimento attualissimo.

Per esempio?

Solo per limitarsi agli aspetti più generali, si pensi al rapporto fra i contenuti e il linguaggio con cui sono espressi. Un linguaggio non solo verbale. Oppure la continua attenzione da prestare al pubblico, ai giudici, in maniera da essere in grado di riorganizzare il proprio discorso sulla base delle reazioni che l’esposizione sta provocando. Se poi vuole restare sorpreso ancora di più, vada a leggersi l’Eneide di Virgilio e poi si riguardi le scene di guerra ad effetti speciali, intendo quelli frutto delle tecnologie digitali più avanzate, presenti nei film, e a cascate nelle serie, che hanno avuto grandissimo successo di pubblico negli ultimi decenni. Oppure l’Institutio Oratoria di Quintiliano per quanto riguarda l’autoapprendimento. Quel “fai da te online” che oggi spopola con i problemi a seguire che sappiamo: per intendersi Doctor Google e il racconto dei sintomi ai medici sulla base di quello letto sulla rete.

Aggiungo: formazione ed informazione elementi utili ma non decisivi se non li abbiniamo al coraggio di cambiare, di operare guardando al futuro vogliosi di seguire ed utilizzare nuovi strumenti e con lo sguardo verso nuove frontiere.

Concetto centrale oggi. Il problema è capire bene cosa s’intenda per “strumenti” e cosa per “nuovi”. E soprattutto che significato si dia alla parola “coraggio”. Aggiungerei la parola “impresa”, così burocratizzata e dominata dall’ormai dilagante algocrazia. Intendo con quest’ultimo termine la rinuncia dell’essere umano alla propria creatività, senso critico, “curiosità” appunto, per restare in tema. Il nostro modo di approcciare, non solo quindi di usare, ma di concepire, di ideare, di progettare le nuove tecnologie è un aspetto fondamentale della nostra progressiva rinuncia al rischio d’impresa, al coraggio di sperimentare, di fare vera innovazione. Le tecnologie digitali sono nate da una grande stagione di creatività, di poesia, nell’accezione più profonda del termine, e cioè non di fuga dalla realtà in un mondo non reale, ma di ideazione e progettazione di un mondo nuovo, che la ragione difficilmente da sola potrà mai concepire. Purtroppo, l’idea di un mercato molto standardizzato, lontano da quella logica d’impresa che ha visto protagonisti grandissimi imprenditori e imprenditrici, ha fatto sì che le tecnologie si siano evolute enormemente ma in una direzione di miglioramento, ottimizzazione di ciò che fin dagli anni Sessanta o poco dopo era stato inventato. Il fatto è che la tecnologia come tutte le costruzioni umane riflette un progetto sociale, economico, culturale, naturalmente, e politico. La tecnica così come la tecnologia non è un fatto neutrale il cui valore dipende dall’uso che se ne fa. La sua ideazione, progettazione fino alla sua versione user risponde a precisi scopi e a relativi obiettivi. Se la società non si dà come scopo e obiettivi quelli di procedere nel progresso, nello sviluppo della sua umanità, la tecnologia da volano diventa freno, ostacolo. E non è colpa della tecnologia ma di noi esseri umani che stiamo rinunciando all’avventura, al piacere, alla gioia che la nostra condizione di esseri umani comporta. Insomma, ci nascondiamo il fascino delle potenzialità insite nella nostra condizione. Che è debole, rispetto alle potenze della natura, dell’universo che ci avvolge, è povera per risorse, e niente in termini di forza fisica, ma ha una caratteristica che solo gli organismi viventi hanno e in particolare gli esseri umani, e cioè è la sua forza generativa. Tendiamo a difendere e a diffondere la vita nell’universo. Se quest’ultimo tende a raffreddarsi, come ci dicono, allora noi tendiamo a riscaldarlo. Siamo un paradosso vivente?

E la pandemia, le guerre, l’inflazione, la povertà sempre più diffusa? Il nostro sistema pensava di vivere ed operare in una bolla di ordinarietà. Deforme risveglio permeato di ansia, il terrore di un incubo che mai avrà termine?

Bisogna stare attenti perché le cose non sono mai come ci sembrano, ce le fanno sembrare: nel male e nel bene. E qui la cattiva comunicazione ha un ruolo fondamentale, quanto distruttivo di speranze, di possibilità di vedere un senso, di reagire, di trovare le risorse, che indubbiamente abbiamo, per superare questa lunga fase di crisi di Umanità. Ogni analisi che non sia in grado di indicare una strada possibile da percorrere per trovare una soluzione, un superamento, un modo di trasformare anche il male più terribile in un futuro bene, è un’analisi errata. Una rappresentazione della realtà, errata, spesso faziosa, portatrice di interessi contrari ai nostri. Espressione di forze egemoni sempre più forti, prepotenti; impietose, anche verso se stesse, in quanto disumane, contrarie alla nostra missione di essere umani.E che sia una cattiva comunicazione lo si capisce subito, basti fare attenzione al fatto che non è in grado di suscitare la sana reazione, la voglia, la determinazione di dover cercare di superare tutto questo. La comunicazione quando, comunicando anche il più grande stato di crisi, di confusione, la notte più nera, non intende, non è in grado di suscitare la speranza, è cattiva comunicazione. Qualunque siano le motivazioni che la caratterizzino. Perché la parola ‘sperare’ non significa quello che oggi si tende a farle significare, quasi si trattasse dell’arma dei deboli, degli sconfitti: speranza è la virtù dei forti, di coloro che vogliono andare oltre, che si danno una meta da raggiungere, che vogliono dare alla realtà delle cose, per quanto terribili possano essere, un impulso ad andare oltre.Una comunicazione che è in grado di trovare, indicare risorse là dove nessuno riesce a vederle. Di generare dal male il bene. Anche nella nostra vita di tutti i giorni. Capace cioè di analisi che non ripropongono i problemi che già si sanno, ma che è in grado, alla luce di quegli stessi problemi, di far vedere come trasformarli in risorse.

E questo vale per i grandi problemi del nostro presente, come per i problemi che riguardano le organizzazioni, le imprese, le istituzioni, la nostra vita più personale. La comunicazione che uccide la curiosità è mortale.

A proposito, a breve discuteremo proprio di “affanno” da cambiamento climatico. Perché siamo arrivati a questo?

Abbiamo sbagliato e continuiamo a farlo. La storia del genere umano è incredibilmente mutata. Quello che è accaduto in un paio di millenni, con un’accelerazione impressionante negli ultimi secoli – ad iniziare dal Rinascimento, che pose tutte le basi necessarie per la prima grande rivoluzione industriale della fine del Seicento e dei primi del Settecento – è stata una cosa magnifica, inimmaginabile. Ma accanto a questo progresso abbiamo fatto degli errori immensi, dalla portata mai vista nella storia del genere umano, e commesso crudeltà mostruose. Ora ci vogliono scelte altrettanto immense, strutturali, abbiamo la possibilità-necessità di inventare un sistema socio-economico, culturale e politico inedito fino ad oggi, così come inedita è la situazione che ci troviamo a vivere. Dobbiamo riuscire sia a pensare in maniera diversa dal passato, in considerazione del fatto che ci troviamo davanti ad una situazione mai presentatasi nella storia dell’Umanità, sia ad agire in maniera altrettanto radicalmente inedita, mai sperimentata prima. Dobbiamo riuscire a mutare il nostro modo di pensare e di agire. Questo cambiamento non è rinviabile, perché fondamentale per difendere quanto gli esseri umani sono riusciti fino ad oggi a fare di buono, di inaspettatamente grande, e così riprendere a sviluppare la nostra umanità. Se lo vogliamo sarà difficile ma certo non impossibile. Fondamentale sarà un nuovo patto comunicativo tra il mondo della scientia e il mondo dell’usus, fra il mondo di chi ‘sa’, o crede di sapere, cioè, e chi pratica, o dovrebbe praticare, quei saperi, quelle conoscenze nella vita di tutti i giorni. La scientia dovrà guardarsi dalle sue pericolose tendenze all’isolamento, all’autoreferenzialità, vedendo nel mondo dell’usus una risorsa fondamentale per la sua ricerca, per dare un senso e un indirizzo al proprio lavoro di ricerca, di alta professionalità, di specializzazione. Viceversa, l’usus dovrà rinunciare alla rassicurante retorica del suo fare e pensare concreto, rendendosi conto che l’indubbio valore della praticità, praticabilità, della concretezza, fattibilità, necessita di conoscenze e competenze che solo il mondo della scientia può dargli.

Ci dimentichiamo che i nostri padri e nonni hanno portato il paese Italia al benessere, partendo da un aspro dopoguerra, ove incertezze e ristrettezze la facevano da padrone, ma non sono stati da deterrente, anzi elastico per animare mille idee. Di necessità virtù?

La Storia non è un rivangare nostalgico i tempi che furono, voglio piuttosto pensare che i nostri padri e le nostre madri, che i nostri nonni e le nostre nonne avessero chiara una lezione: quanta ricchezza c’è, non dico nella povertà, ma certamente nell’essenzialità. Manca sia nelle nostre pratiche quotidiane che nei nostri sogni questa cultura di riuscire a realizzare ciò che non abbiamo con quello che già c’è, il che poi significa conoscere cosa già abbiamo, sappiamo, siamo, invece che perdersi nell’elenco infinito, lamentoso, ansiogeno, di ciò che ci manca, inventarci un uso diverso di ciò che siamo, di quanto già a nostra disposizione, liberandoci dalla compulsione all’accumulo, al perenne rinvio dell’uso di quanto è a nostra disposizione, al voler avere, essere tutto e tutti, e cioè niente e nessuno. Tutti bravi a dire ciò che non c’è, molto meno a dire cosa si può fare per migliorare con cosa già c’è. Siamo afflitti da un diffuso senso di debolezza, di fragilità. Le risposte a questo senso di cagionevolezza possono essere diametralmente opposte: chi, pensando così di proteggersi dai pericoli del vivere, si organizza per ridurre al minimo ogni consumo di energia, puntando al massimo della conservazione possibile; chi, viceversa, per esorcizzare la debolezza propria della natura umana, mette alla prova incessantemente i propri limiti. Le due facce della stessa moneta, quella che ci fa vivere i nostri limiti fisici, sociali, economici, culturali solo come una debolezza e non come una base importante su cui la nostra intelligenza, creatività, umanità possono costruire un futuro migliore. Siamo tutti afflitti da una cultura fondamentalmente conservativa. Accumulatrice. Mirata a capitalizzare invece che a investire. La necessità, la carenza, che sono connaturate alla condizione umana, seppure secondo una scala di valori amplia quante sono gli stati in cui versano degli esseri umani, o rappresentano una maledizione, portatrici di dolore, di conflitti devastanti e distruttivi, oppure sono il punto di partenza per esercitare una meravigliosa virtù, che ci spinge a sfide appassionate, che dà un senso profondo al lavoro, alla vita tutta. La lezione del nostro secondo dopoguerra non dovremmo dimenticarcela.

In tal senso, mi permetto un piccolo esempio, calzante credo, per il nostro settore: “L’Accademia Italiana della Vite e del Vino venne costituita a Siena, su proposta del Comitato Nazionale Vitivinicolo, il 30 luglio 1949, con l’intento di dar vita ad un centro atto a promuovere il progresso vitivinicolo italiano.
L’avvenimento venne sottolineato dal plauso ed incoraggiamento di eminenti uomini di governo e di insigni studiosi italiani ed esteri”.

Erano gli anni dopo la Seconda guerra mondiale, appunto, della ‘rifondazione’ della nostra società e del mondo tutto, prima ancora che della ‘ricostruzione’. I sopravvissuti venivano da decenni di grande miseria, di fame, di scarsità di tutto. Prima di tutto di libertà. Quelli furono anni delle grandi progettualità, che come tutte le grandi progettualità cercavano nell’innovazione di settore lo strumento per realizzare l’innovazione dell’intero sistema socio-economico, e ancor prima culturale. Si era capaci di agire sul presente, sull’oggi, avendo, però, come riferimento una progettualità di ampio respiro.

Potremmo dire, per riprendere una formula a lei cara, anni molto generativi. Come riassumerebbe le caratteristiche fondamentali della Comunicazione Generativa?

È una tecnica che riguarda il modo di pensare e di agire la comunicazione di cui ogni organizzazione, ogni persona finisce con il dichiarare di aver bisogno, per sé e per la realtà in cui lavora, ma che – per ragioni lunghe da spiegare in questa sede – ancora troppi pochi soggetti, individui o organizzazioni che siano, hanno deciso di adottare. La comunicazione – come continuiamo a concepirla e ad usarla – appartiene ad un mondo vecchio, ormai superato dalla storia dell’umanità così faticosamente costruita. Ne vediamo tutti i difetti, conosciamo i problemi che provoca, ma continuiamo a ritenerla l’unica possibile, affermando che non è il tipo di comunicazione sbagliato ma il modo con cui noi la usiamo. E così continuiamo a gettare al vento risorse di ogni genere. Continuiamo ad agire come se questa fosse l’unica comunicazione possibile. Ma per fortuna sono molti i segni di un cambiamento in corso – né potrebbe essere diversamente – che riscontriamo in aziende, istituzioni, enti, organizzazioni di varia natura. La situazione sta cambiando finalmente; forse ancora troppo lentamente, il che ci fa incorrere in rischi anche molto pericolosi. Se dovessi poi dire quali sono i punti di forza delle Comunicazione Generativa, direi che è un potentissimo strumento per: 1. frenare la progressiva tendenza alla frammentazione delle attività e delle relative risorse, appunto avviando un pensare ed un fare che dice un definitivo addio alla vecchia cultura della catena di montaggio, sanando i danni gravi dovuti ad un neo taylorismo a forte impronta digitale; 2. far emergere le risorse esistenti e che fatichiamo a riconoscere e a conoscere, attivandone l’azione in una modalità fortemente integrata; 3. favorire innovazioni settoriali ma con lo scopo unico di avviare l’innovazione nell’intero sistema, superando l’attuale difficoltà di far comunicare il particolare con il generale, lo specialistico con il comune, lo straordinario con l’ordinario, fino a far convergere la forza del locale e quella della dimensione planetaria su un progetto comune; 4. recuperare il senso di partecipazione, di appartenenza all’attività di una comunità di cui si condivide il progetto e di cui si è, per questo, parte a pieno titolo, potendo esercitare finalmente un ruolo attivo, responsabile, creativo, critico; 5. liberare il prodotto – sia esso un bene d’uso o un servizio – dalla valutazione di percorso, di processo, per ridare peso alla fondamentale valutazione degli effetti del prodotto, sia nel mentre viene costruito sia quando è terminato; 6. rilanciare l’importanza dell’autorevolezza al di là di quella del ruolo; 7. ritenere la tecnica, e in particolare le tecnologie digitali, non strumenti neutrali, la cui efficacia dipende dall’uso che se ne fa. Da cui la necessità di ripensare le modalità con cui le tecniche sono realizzate. Per fare un esempio: deve essere l’organizzazione, l’azienda, l’impresa, l’istituzione con la sua specificità che piega le tecnologie ai suoi bisogni e non viceversa. E mi fermo qua.  Aggiungo soltanto che la Comunicazione Generativa per essere innovativa, adeguata ai bisogni diffusi in tutta la società, deve essere considerata uno strumento che ridefinisce la relazione con se stessi e con coloro con cui lavoriamo, viviamo. Per comunicare bene con gli altri, per avviare progetti e realizzare progetti di interesse comune dobbiamo al contempo tornare a comunicare con noi stessi. Fuori da ogni retorica.

Prima ricordava don Milani? So che se ne sta occupando da anni, da quando contribuì a creare la Fondazione a lui intitolata. Quest’anno ricorre il centenario della sua nascita.

Decidemmo di fare la Fondazione quando Michele Gesualdi, fra gli allievi più cari di don Milani, decise di ritirarsi dalla Politica. Fatta la Fondazione me ne sono occupato poco, Michele ha fatto un ottimo lavoro. Dopo la sua morte, però, le cose erano e sono destinate a cambiare. Faccio parte da sempre del CDA della Fondazione, ma credo che la Fondazione debba ripensare radicalmente la sua missione. Vedremo. Intanto, come Centro Ricerche “Scientia Atque Usus” per la Comunicazione Generativa ETS, già da prima della ricorrenza del Centenario, precisamente dal 2020, io e i miei colleghi, colleghe, abbiamo deciso di lavorare per creare un Centro di Documentazione e Comunicazione Generativa che racconti come oggi, in Italia e nel mondo, viene attualizzato il pensiero e l’azione di Lorenzo Milani. Sì, “attualizzato”: ci sono già importanti centri che raccolgono documenti delle opere e della vita di Milani, e non solo; a noi preme, invece, dare voce a tutti coloro che nei contesti più diversi – dalla scuola al mondo del lavoro, dalle associazioni di volontariato al mondo religioso etc. – cercano di attualizzare nel presente la sua opera. Di pensatore e di religioso, che vedeva nel pensiero e nell’azione un binomio inscindibile. Uno sperimentatore senza paura, divergente nella sua concezione rivoluzionaria dell’educazione e del lavoro, del senso stesso di cittadinanza, il quale, in forza proprio di questa sua posizione di radicale trasformatore della cultura e delle cose, voleva e pretendeva, però, di stare dentro il sistema. Tale era il suo impegno a cambiarlo radicalmente e tale era la sua convinzione che le cose fossero, siano destinate a trasformarsi. Ma per farsi un’idea di quello che stiamo cercando di realizzare credo che sia più semplice vedere i contenuti presenti nel sito del Centro Generativo “Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana” (www.sau-centroricerche.org/centro-don-milani/). Questa scelta è mossa da un’altra ancor più forte convinzione, e cioè che oggi abbiamo perso l’esercizio della memoria, il suo senso profondo. Travolti dalla libido tecnologica della memorizzazione fatichiamo a ricordare. La differenza fra “memorizzare” e “ricordare” sta nel fatto che la memoria è sempre strumento di progetto, è orientata a sostenere una progettualità e nasce da domande cui vogliamo dare risposte. Domande, certo in continua trasformazione, divenire, anche in forza delle risposte che a mano a mano troviamo, ma la memoria risponde sempre ad un progetto, seppure in costante ridefinizione. Oggi, anche a causa di un frainteso senso della meravigliosa forza del digitale, tendiamo a pensare che conta registrare, accumulare, capitalizzare informazioni: che uso farne è questione che affronteremo in un secondo momento. Una rinuncia alla progettualità, un rinvio ad avanzare ipotesi, che offende la nostra intelligenza, creatività, il vitale universo dei nostri valori, ma anche le potenzialità che il digitale offre. Il progetto su don Milani nasce dal fatto che uno dei punti di forza del suo pensare ed agire è proprio quello di ridiscutere il rapporto fra memoria del nostro patrimonio culturale, materiale e immateriale, e sua attualizzazione nel presente. Un patrimonio egemonizzato ed impoverito da una classe sociale miope quanto avara, attenta all’accumulo, alla omologazione, a difendere un privilegio che ha già da troppo tempo esaurito la sua forza propulsiva. Questa prospettiva porta a ripensare tutte le attività sociali, economiche e politiche fondamentali nella prospettiva della necessità di un nuovo patto sociale, alla luce di un ripensamento circa la necessità che ha il mondo della scientia di conoscere il mondo dell’usus, e, naturalmente, viceversa. Ma di questo abbiamo già fatto cenno. Del resto, Lorenzo Milani, figlio di una famiglia più che benestante, di cultura alta e internazionale, riassume bene alcuni dei punti che abbiamo toccano fino ad ora in questa conversazione: uno per tutti, cosa significa una cultura dell’impresa, rischio dell’impresa, che non si esaurisca in una visione aziendalistica ma che riguardi il senso stesso della vita. Lui non aveva nulla, emarginato, isolato in una delle montagne più povere d’Italia, eppure dal niente riuscì a fare tutto, per tutti. E a distanza di cento anni dalla sua nascita – al di là delle celebrazioni in corso, che temo gli avrebbero suscitato non solo disagio ma qualcosa di più, considerato il carattere – la sua figura è ancora una figura di grande riferimento nel mondo.

In Europa: siamo comparse, stiamo agli ultimi banchi o forse ci piangiamo troppo addosso speranzosi sempre in qualche strada traversa da prendere all’ultimo momento?

Le mie competenze e conoscenze non sono tali da poter dire niente più di quanto possa dettare il buon senso.  C’è bisogno di una comunicazione che dia il massimo valore alle realtà espressione dei territori. Dico ‘dare’ e non ‘restituire’ perché sono convinto che questa valorizzazione delle differenze presenti sul territorio europeo non debba risolversi in un’operazione nostalgica, di un ritorno al passato, ma debba essere il risultato di un processo di modernizzazione delle infinite diversità che caratterizzano i singoli stati europei: sia all’interno di ciascuno di essi, sia fra di loro. Un patrimonio di valore unico al mondo. In questa prospettiva l’Italia, composta da migliaia di meravigliosi comuni, diversissimi o a volte tra di loro, per infiniti aspetti, potrebbe costituire un prototipo guida. Ma perché questo accada bisogna che l’Unione Europea rinunci ad un’idea di indirizzo e controllo basata essenzialmente su una comunicazione organizzativa burocratica dove la certificazione della qualità dei processi domina su quella dei risultati. Il che sarà possibile solo con l’avvio di un’unità politica a tutti gli effetti. La quale è stata preceduta di fatto da una cultura europea: oggi tantissimi giovani si sentono europei e capirebbero poco o niente se lo spazio Shengen venisse cancellato, e ristabiliti rigidi confini fra le nazioni, abolita un’idea di sicurezza che vede tutti i paesi aderenti collaborare fra loro. Ogni giorno oltre 3,5 milioni e mezzo di persone attraversano quelli che una volta erano confini e che ora non sono più niente. Si tratta di un popolo di oltre 400 milioni di persone.Tocca a noi far sì che l’aula dove cerchiamo di apprendere un’inedita idea di appartenenza a questa nuova ma anche antichissima entità socio-economica che è l’Europa non abbia ultimi banchi, né studenti\studentesse che siano figli\figlie di un Dio minore. Dobbiamo smettere di sperare che venga in nostro soccorso un Papa o un Imperatore cui si spera di risultare simpatici o simpatiche. Orgogliosi di poter dare un contributo originale, diverso, particolare ad un progetto che è comune, universale. Se la cosa, ed è normale, ci affascina ma ci fa anche paura, la soluzione che ci dovrebbe dare gioia e sicurezza è che o ci si salva tutti insieme, scoprendo forme di comunità nuove, o non si salva nessuno. La crisi climatica, di cui si discorreva prima, è l’insegnamento più chiaro che il mondo ci sta dando: questa crisi è la conseguenza di un progresso storico importante, fondamentale, ma al tempo stesso quello stesso progresso ha compiuto errori, va profondamente corretto al più presto. Non cancellato; bisogna procedere apportando, il più presto possibile, cambiamenti di sistema che sono indispensabili e urgenti. Qualsiasi fuga nell’isolamento, nell’autarchia, nel “io comunque mi salvo da solo”, nell’illusoria efficacia dell’autosufficienza comporterebbe la rinuncia a quanto l’umanità – seppure anche fra orrori terribili, alcuni dei quali continuiamo a vivere anche in questi ultimi mesi – ha fatto di buono fino ad oggi. Siamo cittadini del mondo, poco ma sicuro, piaccia o non piaccia. Indietro non si torna, a meno che non si voglia rinunciare a tutte le forme di progresso che siamo stati in grado di realizzare. La crisi che stiamo vivendo è una crisi importante, grave, importante come importanti sono i passi che l’umanità ha fatto in tutti i campi: dalla ricerca alla più grande rivoluzione in corso: quella di genere.

La sua sembra essere un’analisi cruda, senza sconti a nessuno, nemmeno all’Europa, ma fiduciosa nel futuro.

Io ho avuto la fortuna – non per merito mio ma della società che me li ha resi raggiungibili, sia chiaro – di avere avuto grandi maestri, tutti di vasta cultura e cittadinanza internazionale; non solo europea. Penso ai miei professori della scuola filologica e storica fiorentina (da Lanfranco Caretti a Sebastiano Timpanaro, da Sergio Romagnoli a Ernesto Ragionieri, Alvise Zorzi), ho lavorato con storici come Fernand Braudel, con economisti come Giacomo Becattini, con uomini di pensiero come Ernesto Balducci e uomini di cultura come Giulio Bollati (grande editore, il cui volume L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, continua ad essere attualissimo), Roberto Busa, il padre dell’umanistica informatica. Mi fermo qui, perché i miei debiti sono davvero tanti (Edgar Morin per tutti), e riguardano, oltre a uomini e donne di “scientia”, uomini e donne d’impresa, così come del vasto mondo del lavoro, del volontariato, e altri mondi ancora. Tutti impegnati in prima persona a costruire un modello italiano che fosse un contributo ad una cittadinanza internazionale, oggi planetaria, e quindi europea. Una lezione per me incancellabile, e che con il trascorrere degli anni ha avuto sempre maggior forza.Ma soprattutto i miei debiti vanno a quelle migliaia di persone che ho incontrato e spesso conosciuto durante la realizzazione dei progetti di comunicazione che ho portato avanti e porto avanti, con i miei giovani colleghi e colleghe, nei settori più diversi. Donne, uomini, bambine, bambini, giovani, maturi, mature, anziane, anziani, vecchie, vecchi. Un’umanità di esperienze, idee e vite diverse, culture, economie, affettività dissimili, a volte diversissime, a volte in conflitto fra di loro. Ma se l’uomo parla all’uomo, se l’uomo non rinuncia a conoscere l’uomo, se comprendiamo che la diversità è essenziale come i tanti strumenti di un’orchestra, che gli spartiti in mano ai singoli maestri devono però avere una partitura comune, un progetto comune, se affrontiamo con realismo le difficoltà terribili che abbiamo davanti ma con la convinzione che le cose facili le sanno fare tutti, allora la vita vince sempre: a cominciare dal fatto che ti appassiona, ti diverte, dà un senso alla tua storia. E l’umanità è andata avanti tutte le volte che ha trovato il coraggio e la lucidità di scegliere di affrontare le sfide più difficili da superare. L’umanità meraviglia sempre, sorprende, perché la vita è sorprendente forte, sempre e comunque. A maggior ragione lo dobbiamo ricordare nei momenti più bui come questo. O in altri che verranno. La provvidenza – la si legga in chiave religiosa o laica – c’è, a patto che si abbia la capacità di pro-videre come ci dice l’etimologia latina della parola. E per pro-videre il futuro bisogna avere buona memoria, non stancarci di apprendere dal nostro passato, dagli errori commessi, così come dalle tante belle cose che l’umanità è stata in grado di fare. Per questo dobbiamo imparare a riconoscere le onde lunghe della Storia, a non farsi distrarre dalle increspature marine che, se seguite, ci portano a commettere gravi errori.

Il prossimo progetto? C’è senz’altro, altrimenti ne abbiamo noi  uno pronto!

Ce ne sono in corso e in fase di avvio diversi. Qui voglio ricordare quello che riguarda come comunicare il valore delle olivete, dell’olio.  Lo stiamo facendo a livello nazionale. Crediamo che l’olio e l’olivo rappresentino non solo un prodotto e una pianta del nostro territorio ma un simbolo che ha un valore immenso perché fanno parte del nostro immaginario. E noi purtroppo – sia come italiani, ma anche come toscani – non riusciamo a vedere le straordinarie risorse del nostro territorio. Perché l’olio ha delle proprietà nutraceutiche benefiche a livello di salute, le olivete preservano il nostro paesaggio e le piante assorbono moltissima anidride carbonica. I dati parlano chiaro: l’olivicoltura fa bene alla salute umana e dell’ambiente. E noi che cosa facciamo? Abbiamo una quantità infinita – perché su questo non esiste un censimento ufficiale a livello nazionale – di olivete abbandonate. Quindi con i nostri centri di ricerca io e i miei colleghi\colleghe abbiamo deciso di realizzare un percorso generativo di comunità per mettere insieme gli esperti di settori diversi, dagli scienziati agli imprenditori, dai lavoratori alle istituzioni, scuole, associazioni del terzo settore, perché insieme si possa ridefinire il valore dell’olio e dell’olivicoltura in Italia (mettendo a sistema aspetti economici, sociali, culturali, ambientali, paesaggistici…). Ma il lavoro che stiamo cercando di fare, in stretta collaborazione con l’Associazione Nazionale Città dell’Olio, ha come obiettivo più ampio quello di ridefinire il concetto di valore in generale delle nostre produzioni, di cosa sia un bilancio di un’attività. Penso che in una società della complessità, dove ogni elemento è indissolubilmente collegato a tutti gli altri, il concetto di valore sia radicalmente da ridefinire, così come quello di bilancio. Oggi sia le entrate che le uscite di qualsiasi impresa, privata o pubblica, sono difficilmente riducibili alla logica della contrapposizione di due serie numeriche bilancianti, da pareggiare nei rispettivi totali. Per il resto l’obiettivo immediato è quello di contribuire a realizzare politiche di sostegno e di sviluppo del settore in grado di renderlo un elemento centrale nelle traiettorie di sviluppo sostenibile (a livello ambientale, sociale ed economico, oltre che naturalmente culturale) del nostro paese. Entro l’anno, promosso dalla Regione Toscana, dovremmo intanto organizzare un evento sulla relazione tra olio e salute umana e dell’ambiente. Detto questo, se Lei avesse un bel progetto da proporci noi saremmo felicissimi.

Cosa doveva fare e non ha fatto?

Dovevo andare in pensione per anzianità qualche mese fa come professore universitario ordinario. Ma non sono andato in pensione, perché sono convinto che il concetto di pensione vada radicalmente rivisto, senza con questo ledere, naturalmente, i diritti acquisiti nel tempo, né ignorare le condizioni speciali di sofferenza, di inabilità, invalidità.  Col passare degli anni le cose cambiano, tutti cambiamo, ma questi cambiamenti non possono essere mandati in pensione. E vale per tutte le fasi della vita: ad iniziare dai giovani – messi ‘in pensione’ in attesa che venga il loro tempo – cui, invece, andrebbero dati ruoli di responsabilità perché possano così pensare e fare come la gioventù deve poter pensare e fare. E questo vale per tutte le fasi dell’arco della vita. Gli esseri umani sono soggetti sociali la cui storia, le cui trasformazioni sono un patrimonio immenso: dai più piccoli fino ai più vecchi. Sempre e comunque, con gli anni il lavoro cambia; ma non finisce. Vedo intorno a me persone di ogni età – a cominciare dai giovani che vanno a scuola – che sono infelici perché non viene loro riconosciuto un ruolo sociale utile e intelligente, creativo e generoso. E si continua a dire che non abbiamo le risorse. Ma di quali risorse si parla? Di quale economia si parla? Al mio primo lavoro il mio ‘capo’ mi disse: se vuoi imparare a comunicare un’azienda devi imparare a leggere il suo bilancio. E leggere vuol dire fare delle domande, intelligenti. Quali bilanci sociali, oggi, stiamo scrivendo?

Un ricordo ricorrente?

La vita semplice dei miei nonni. Il nonno e la nonna paterni erano artigiani di San Frediano; gli altri due erano un industriale che produceva macchinari e costruiva case, mentre la nonna era di una famiglia che aveva una nota azienda del cotto imprunetino. Due coppie di nonni così diverse eppure così culturalmente simili. Dignitose, orgogliose della loro diversità, frutto di scelte precise. Cosa avevano in comune? Torno spesso a chiedermelo. Comunisti i primi, liberali antifascisti i secondi, operavano, vivevano, dei valori, un progetto sociale comune, seppure in contesti sociali molto diversi, spesso conflittuali. Un po’ come era il rapporto fra Togliatti e De Gasperi: il nemico si combatte ma si rispetta perché ci aiuta a migliorarci. Penso così a loro e penso all’Italia, al mondo che dovremmo costruire. Ma forse sono solo nostalgie private, ricordi. Ma se i ricordi sono progettualità, come dicevamo, lì c’è un modello di progetto che cerco di perseguire.

Un pensiero che allontana?

Non so cosa allontani. Certamente non c’è giorno in cui non cerchi di liberarmi dall’idea diffusa che “se avessi…potrei”. Ho anche troppo. Il problema è che spesso non lo so, non conosco, non voglio conoscere questo “troppo” per paura delle responsabilità, delle possibilità senza alibi che mi potrebbe dare. Il resto viene di conseguenza.

Cosa consiglierebbe all’Unione Agricoltori di Siena?

Non sono certo in grado di dare consigli, in un settore così importante e tecnico come il vostro. Se non: imparate a comunicare generativo. È una tecnica comunicativa che fa della generosità un interesse comune, come nessun’altra forma di comunicazione.

Siamo ai saluti, sapendo che avremmo certezza di rivederci. Concludo con questo aforismo di Epiteto, che mi ha colpito particolarmente “Se qualcuno affidasse la tua persona al primo che incontra ti adireresti; e tu che affidi la mente a chi capita, e, se questi ti insulta, la lasci cadere nel turbamento e nella confusione, non te ne vergogni?” Come collettività dovremmo tenerla bene a mente, in fondo è curiosità. 

Il Direttore,

Gianluca Cavicchioli

 

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