Dopo la partecipazione alle nostre iniziative, è il momento per alcune riflessioni con il Professor Fabian Capitanio. Intanto ben trovato e ben venuto.
Vorremmo parlare nuovamente di reddito agricolo e di come tutelarlo, senza utilizzare bonus, aiutini e brodini caldi. Interventi strutturali insomma. Partiamo dall’inizio. Serve per prima cosa una giusta mentalità. Qui come stiamo messi?
Citando Ungaretti, mi verrebbe da dire “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. È proprio questa immagine di precarietà che rende appieno l’idea di un settore in grande difficoltà dal punto di vista strutturale rispetto alla transizione nei nuovi scenari globali. Per chiarirsi, il riferimento non è soltanto al cambiamento climatico; sarebbe miope e riduttivo pensare che la destabilizzazione e destrutturazione profonda dell’agricoltura italiana ed europea dipenda da una manifestazione diversa degli eventi meteorologici avversi. Il fenomeno è molto più complesso e profondo e richiama l’illusione, trasformata in politica, che produrre in campo quasi non servisse più, il riferimento chiaro e diretto è all’evoluzione della Politica Agricola Comunitaria (Pac); l’illusione che l’Europa (e l’occidente Atlantico più in generale) sia/siano ancora il centro di riferimento del mondo dal punto di vista economico/politico; l’illusione che l’agricoltore (donne e uomini che spendono la loro esistenza nei campi e nelle aziende) fosse ormai “un di cui”, un mezzo per generare profitti per una serie di intermediari più o meno qualificati, e non l’attore principale e irrinunciabile rispetto al cibo che consumiamo e alla preservazione di un paesaggio/biodiversità unici che caratterizzano il nostro paese. A questi elementi, non esaustivi, si aggiunga anche l’illusione dell’ultimo secolo che il capitale possa sostituirsi in modo egalitario all’essere umano e al fattore terra. La perdita d’identità delle donne e degli uomini che ancora rappresentano la spina dorsale del nostro paese (soprattutto, per la sua storia e per la sua morfologia) è forse la questione delle questioni, ad onor del vero.
Causa ed effetto. Dipende più dagli imprenditori o dalla politica, o meglio, dovevamo essere più incisivi?
Dipende cosa si intende per politica; se la politica è quella portata avanti a livello UE e di ministero/regioni, sicuramente lo stato attuale e la conseguenza diretta di sottovalutazioni degli aspetti dapprima richiamati, un po’ per ignoranza, un po’ per mancanza di visione, molto per mancanza di qualità specifica degli interpreti, molti inclini alla permeabilità dello status quo. Se estendiamo il concetto di politica anche ad altri attori, come le rappresentanze di categoria, la situazione mi sembra, con gradazioni diverse, la stessa. Vedete, l’arroccamento a difesa di posizione precostituite è la caratteristica principale dei sistemi economici. In Italia, questa peculiarità è esasperata all’ennesima potenza tanto da portare allo sfinimento tutte le forze protese al cambiamento dello status quo, anche quando ce ne sarebbe un bisogno disperato. Gli agricoltori hanno le loro colpe, evidentemente; pensate ad esempio alla peculiarità tutta agricola di esenzione dalla tenuta dei registri contabili. Molti aspetti della gestione operativa e della creazione di valore, rimangono al di sotto della linea di visibilità. Rimane invece sempre visibile la liquidità, quello che l’imprenditore è in grado di trattenere una volta pagati i fornitori e venduto il prodotto, e si tende a confondere la capacità di generare liquidità con la redditività dell’azienda. Un errore questo che limita la capacità dell’imprenditore di prendere decisioni sul lungo termine e spinge invece, anche per le caratteristiche dell’agricoltura, a concentrarsi sui risultati annuali. Un bilancio contiene invece informazioni essenziali per valutare l’operato dell’azienda da diversi punti di vista, nonché la possibilità di effettuare una corretta gestione finanziaria, al di là di quella economica, e di prendere decisioni strategiche, al di là dell’andamento dell’annata agraria.
Oltre 850 mila aziende, ma a ben vedere forse non basta una partita iva a fare un’impresa. Mondo variegato e peculiare. Italia stretta e lunga, moltitudine di produzioni. Perché facciamo fatica ancora ad allontanarci dal sistema di tutela pubblico? È vetusto e superato. Coraggio e scelte, vere, che non arrivano mai.
In realtà le aziende reali sono poco più della metà ma, questo non inficia la valenza anche delle aziende “non professionali” rispetto alla vitalità di un tessuto economico-sociale delle aree interne del nostro paese che è fondamentale, se si avesse capacità di una visione larga e profonda rispetto a quale indirizzo di politica economica deve percorrere l’Italia. David Ricardo ipotizzava un modello di crescita in cui l’economia cresce grazie all’accumulazione (ossia all’aumento delle risorse, e non solo alla maggior specializzazione delle risorse date). L’economia tende però ad uno stato stazionario. La produzione usa terra, capitale e lavoro; la terra è limitata, per cui gli altri fattori sono soggetti a rendimenti decrescenti (ossia: raddoppiando capitale e lavoro con terra costante il prodotto aumenta ma non raddoppia). L’economia cresce finché i rendimenti del capitale e del lavoro superano i minimi necessari per mantenerli; la crescita termina quando la pressione demografica sulle limitate risorse agrarie convoglia l’intero surplus sugli agrari ora visti come puri consumatori, e non, come i capitalisti, risparmiatori e investitori. Il protezionismo agrario, tende pertanto a limitare la crescita. Si chiama modello dei vantaggi comparati, infatti: il paese che si specializza nella produzione di un prodotto gode di un vantaggio comparato: ognuno vende ciò che sa “fare” meglio. Questa divagazione economica c’entra con l’agroalimentare italiano? C’entra perché il modello italiano è vincente appunto in ragione di un vantaggio comparato inimitabile nell’ambito della competizione globale; le nostre produzioni di campo sono inimitabili in ragione di un clima unico, di una fertilità dei suoli adeguata, di una diversità pedo-climatica non replicabile. Allo stesso modo, la trasformazione di questi prodotti è inimitabile. Torniamo allora alla presunta contraddizione: quelle che apparentemente appaiono come fragilità di sistema, sono invece anche l’adattamento secolare del comparto ad una specificità e tipicità unica nel mondo: per usare un esempio celebre, lo champagne non sarebbe champagne se la produzione non fosse limitata e la trasformazione non fosse di altissima qualità.
Perché l’interesse verso le polizze agevolate è concentrato solo su pochissime zone e regioni?
Mi verrebbe da dire per inerzia; la polizza assicurativa in agricoltura nasce come monorischio grandine e, i territori storicamente più esposti dal punto di vista meteorologico e colturale sono quelli del nord-est. Da lì, insieme alla generosa presenza di indennizzi ex post garantiti fino alla fine del XX secolo, nasce una concentrazione di portafoglio che ha poi portato al fallimento complessivo del sistema di intervento pubblico più di recente.
La gestione del rischio. In Europa siamo all’avanguardia, almeno negli intendimenti. La nuova Pac, Agricat ci siamo? Noi crediamo ancora di no.
Abbiamo bisogno di un foglio bianco da cui ripartire; l’adozione della Misura Nazionale è stata una scelta miope e dettata da ragioni non di efficienza economica del sistema. Una scelta pigra. La direzione deve essere quella di andare verso una rete di protezione vera per l’agricoltura italiana/UE che preveda diversi strumenti per rischi diversi. L’ablazione del mito che identifica la stipula di una polizza assicurativa deve essere una priorità; i rischi vengono anche dall’aumento dei costi di produzione, dalle crisi di mercato, dalle problematiche sanitarie e dalle patologie delle piante. E’ arrivato il tempo di scrivere con competenza specifica nuove regole e nuove politiche coinvolgendo le migliori menti del paese al fine di dare risposte ambiziose e non velleitarie all’esigenza di stabilità del reddito in agricoltura. Agricat rientra in questo discorso; così com’è stato pensato è una partita di giro con soldi degli agricoltori.
Serve una consapevolezza vera ed una partecipazione effettiva. Crediamo molto nei fondi mutualistici e negli Ist. Perché non evolvono?
Non evolvono per quanto appena detto e, aggiungerei, perché anche il sistema delle rappresentanze sindacali ha sottovalutato o addirittura annullato le minacce che il “mondo nuovo” rappresentano per l’agricoltura moderna (clima, mercati, fitopatie, ecc.). Tra l’altro, in assenza di bilanci come evidenziato, i fondi IST rappresentano uno strumento utilissimo, direi irrinunciabile, per migliorare il rapporto banca impresa nel settore primario. Rapporto che è strategico se pensiamo all’importanza degli investimenti necessari per innovazione ovvero, in modo più specifico, per fare investimenti per la prevenzione ex ante rispetto ad eventi catastrofali (ad esempio reti antigrandine).
Servono anche le diponibilità economiche, ma da utilizzare solo per gli interventi strutturali. È questione di mentalità?
È questione di tutto ciò che abbiamo già detto.
Le compagnie di assicurazione non possono che essere della partita ma con altre prospettive. Strumenti più performanti e meno dispersivi dal punto di vista economico. C’è da inventare o solo da utilizzare nuovi strumenti e contratti?
Le compagnie devono finalmente investire, considerando che negli ultimi 20 anni sono andati a rimorchio dei Consorzi e dei broker. Oggi che il sistema è esploso, e la riassicurazione è recalcitrante a sopportare perdite enormi, anche le compagnie non possono più essere pigre e subire passivamente un mercato che è piccolo (rispetto ad altri segmenti assicurativi) ma di straordinaria rilevanza sociale ed economica se pensiamo che intorno alla famiglia agricola vivono in Italia milioni di persone.
Forse qui sta la vera rivoluzione, il vero e deciso passo in avanti. Evitiamo di pensare che ci sia qualcosa o qualcuno che debba pensare ai nostri bilanci ed alle nostre produzioni. Azzardiamo una previsione?
Oggi proteggersi, con polizze, ovvero aderendo a fondi mutualistici/Ist, deve essere equiparato ad un costo di produzione. Deve esserlo. In tale ottica, quindi, ci sarebbe un bisogno disperato di un salto di qualità da parte di tutti, parlando un po’ meno di quali strategie utilizzare per “acchiappare” sussidi, ritornando a guardare alla gestione aziendale.
L’Europa sempre più centrale nelle nostre attività e nel quotidiano; ma abbiamo davvero contezza di questo?
La mia opinione vale come quella di un comune cittadino, se parliamo in generale; dal punto di vista agricolo, invece, c’è bisogno di più Italia così come di più Francia, più Polonia, ecc. Quello che voglio dire è che la Pac ha rappresentato per decenni i tendini che legano i territori fragili ai grandi centri (la polpa e l’osso di Manlio Rossi Doria); la Pac era la CEE. Dopo quasi 70 anni il mondo è cambiato, con una rapidità mai sperimentata nella storia degli esseri umani, ma la stessa CEE è diventata UE. I sei paesi fondatori sono quasi quintuplicati e quello che doveva essere un sogno federale è diventato, sovente, una camicia di forza burocratica senza identità. Anche qui, forse, c’è necessità di ricominciare a sognare.
Il prossimo progetto?
Continuare a sognare; confido molto nella vicinanza con i miei studenti.
L’errore più grande e l’opportunità persa.
Ogni minuto a difesa degli interessi precostituiti è un errore enorme ed un’opportunità di evoluzione persa. Non bisogna aspettare le guerre per vedere, come descriveva Mancur Olson, un paese tornare a volare libero di ogni legaccio.
Ci rivedremo presto?
Sicuramente sì, magari in un evento con tanti agricoltori, dai quali vorrei conoscere il loro sentimento, la loro visione delle cose.
Il Direttore
Gianluca Cavicchioli